Il progetto di rigenerazione di Corviale arriva alla Biennale di Architettura di Venezia. Intervista all’architetto Laura Peretti
Nel 2015 il progetto di riqualificazione della celebre “muraglia” della periferia di Roma, firmato dallo studio dell’architetto Laura Peretti, vince il concorso indetto da Ater e Regione Lazio. Oggi, in attesa dell’apertura del cantiere, il plastico del progetto è in esposizione alle Corderie dell’Arsenale VENEZIA - Corviale è il mega complesso architettonico situato nella periferia a nord ovest della Capitale, conosciuto anche come il “Serpentone”, essendo una struttura di quasi un km di lunghezza, realizzato negli anni ’70 da un team coordinato dall’architetto Mario Fiorentino. Un edificio che con gli anni si è trasformato da quello che doveva essere il simbolo di un utopia del “buon vivere” in collettività in una icona di inarrestabile degrado e ghettizazzione metropolitana. Nel corso degli anni ci sono stati diversi tentativi di riqualificare la struttura, ma è solo nel 2015 che viene bandito dall’ATER (Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale del Comune di Roma) il concorso “Rigenerare Corviale: look beyond the present”, promosso e finanziato dalla Regione Lazio. Il bando è stato vinto dallo studio dell’architetto Laura Peretti, con la quale abbiamo avuto modo di parlare in occasione anche della partecipazione del progetto alla 16. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia. E’ un progetto molto complesso quello proposto per Corviale che ha dovuto necessariamente tener conto, non solo della trasformazione edilizia della struttura, ma anche del contesto e del tessuto sociale al quale era destinato. Uno spazio che ad oggi conta circa settemila persone residenti. Ci racconta come è nato? Ho vinto il concorso alla fine del 2015. Un concorso internazionale indetto da Ater e Regione Lazio come finanziatore, bandito in modo molto accurato e con requesiti specifici. Un bando molto maturo, con obiettivi precisi, temi ben definiti e problematiche concrete da risolvere. Il concorso è stato il risultato di una decisione dell’Ater per risolvere e sanare il problema del ‘quarto piano’ della struttura di Corviale, destinata originariamente ad essere uno spazio riservato ai servizi. Fiorentino nel suo progetto aveva previsto la strada del quarto piano adibita a spazi pubblici per servizi, ma di fatto questa prerogativa non è mai stata soddisfatta lasciando ampio campo all’abusivismo. Il progetto è stato realizzato con una equipe e, come previsto dal bando, doveva essere coinvolto obligatoriamente un artista (in questo caso è il Maestro Mimmo Paladino ndr), un sociologo ed esperti di sostenibilità, io però ho voluto ci fosse anche una paesaggista. Quali sono stati secondo lei gli elementi fondamentali che hanno permesso a questo progetto di essere scelto tra i 44 presentati? La mossa vincente di questo progetto è stata probabilmente anche quella di andare un po’ fuori tema. Abbiamo pensato di creare una strada serpeggiante, curvilinea rispetto a quella esistente che invece è parallela alla struttura e suddivide gli ingressi in maniera regolare. Il percorso da noi progettato rompe invece questa continuità. Inoltre è prevista la realizzazione di una piazza nel punto topograficamente più difficile, dove esiste un salto di quota di nove metri circa a metà di Corviale dove attualmente c’è un ponte, un tunnel e un museo. Noi abbiamo pensato la piazza proprio in questo punto, in modo da colmare il dislivello, rendendo i percorsi più fluidi. Inoltre siamo voluti arrivare al suolo originale di Corviale, che è quello dell’Agro romano, svuotando la parte dove oggi ci sono i garage, aprendo in questo modo un grande varco verso la campagna con una rampa che consentirà una connessione tra la città e la campagna appunto, una sorta di collegamento tra due mondi. Questo attraversamento è quello più significativo, ma in realtà noi riapriamo 27 vani scale che sono chiusi dentro una percorrenza longitudinale molto interna. Oggi si entra a Corviale attraverso 5 punti. La rigidità della struttura sarà invece alleggerita dall’apertura di questi 27 varchi di accesso, con un programma di permeabilità molto capillare, un sistema di attraversamento di quella che è di fatto una grande barriera. Possiamo dire che il progetto è stato pensato non per intervenire su un’edificio, ma per creare una sorta di piccola cittadina… Si, diciamo l’idea è stata quella di pensare l’edificio come una struttura urbana capace anche di assorbire una differenza. Le strutture urbane quando sono di una certa importanza negli anni possono sopportare una serie di trasformazioni e spesso sono miglioramenti. In tutto questo possiamo dire che Fiorentino ha pensato Corviale in un modo un po’ troppo rigido, come una barriera totale. Con questo progetto la barriera totale può diventare invece un sistema in grado di accettare il fatto che lo si possa attraversare. Qual è stato secondo lei il limite del progetto coordinato da Fiorentino? Sicuramente proprio l’aver creato questa barriera, quindi l’utopia di realizzare un edificio lungo un km completamente diritto e dunque molto rigido. Forse è stata un’idea un po’ forzata che però è anche la sua maggiore qualità per certi versi. In realtà è una struttura molto controversa. La storia di questi edifici ci insegna che spesso negli anni però le cose possono cambiare. Un po’ come le città in fondo. Non si può pensare che un insediamento così non abbia degli alti e bassi nella sua storia e rimanga per sempre quello per cui è stato pensato. Quali sono i tempi stimati per la realizzazione concreta del progetto? In Italia dobbiamo pensare che c’è una certa inerzia. Questo cambiamento si aspettava già da tanto. Non so se questo sia il momento esatto in cui questo accadrà. Diciamo che c’è stata una volontà politica molto precisa e presente nel fare un concorso, nel dargli seguito e nel finanziare (anche per un po’ di più di quanto previsto) il progetto stesso. Attualmente abbiamo un finanziamento per la metà e non per tutto il progetto. Nicola Zingaretti (governatore della Regione Lazio ndr) sta cercando di mantenere le sue promesse. Diciamo che se tutto andasse bene in 6/7 anni potremmo vedere i primi cambiamenti. Ma forse anche un po’ di più. E’ possibile che il Comune intervenga per finanziare la realizzazione del progetto? Il Comune in realtà in tutto questo non c’entra essendo un progetto della Regione Lazio. Il Comune deve partecipare come ente chiamato a dare le concessioni e può essere coinvolto in quanto è previsto il rifacimento degli spazi pubblici attorno all’edificio. Quindi non possiamo dire che il Comune non ci entri in assoluto, ma sicuramente non è il primo chiamato in causa. Non interviene in termini economici anche se potrebbe, ad esempio partecipando nella richiesta di fondi europei, che passano per i Comuni. Il Comune di Roma potrebbe appoggiare il progetto e contribuire in questo senso. Sicuramente sarebbe un bene se partecipasse a questo processo, anche perché il Municipio è direttamente coinvolto e ci sono tantissime cose che si possono fare insieme. Spero che il Comune si adoperi per questo. Parliamo della Biennale. Questo progetto, di cui è esposto il plastico alle Corderie dell’Arsenale, sembra essere particolarmente calzante con il focus scelto per questa edizione dal titolo “Freespace”. Le curatrici hanno parlato di architettura, non come di un club esclusivo, ma come un qualcosa che si avvicini di più alle esigenze delle persone. Lo stesso Paolo Baratta (Presidente della Biennale) ha evidenziato la necessità di un maggiore pragmatismo e concretezza in ambito architettonico. Questo vuol dire che si sta in qualche modo affievolendo l’immagine dell’archistar che è stata dominante in questi ultimi anni? Beh speriamo, è da augurarselo! Non perché gli archistar non siano bravi architetti ma perché la città non si costruisce per pezzi d’autore, non è un opera d’arte creata da un singolo, ma un’opera d’arte collettiva casomai. E’ molto importante che nasca da una collaborazione. E’ fondamentale una cooperazione che si sviluppi come mestiere, come sapere, e non come una cosa che venga detenuta come se fosse un vestito, una firma. Questo è assolutamente sbagliato l’architettura non è come un vestito, non è possibile pensarla in questi termini. C’è poi l’importanza della comunità, come nel caso di Corviale che ha sopportato per molti anni una rigidità di questo sistema. Alla fine se un architetto eccede nel proprio protagonismo le conseguenze le pagano i cittadini. Credo che sia molto importante pensare l’architettura come un servizio, un’attività a servizio della comunità, è sbagliato andare in un’altra direzione. Questo è il mio pensiero, la cosa è ovviamente opinabile. Però vedo che è un momento questo in cui le comunità stanno molto rivendicando la propria capacità di richiedere alcune modalità attraverso le quali l’architettura deve esprimersi. La sua esperienze all’estero quanto è stata fondamentale nell'affrontare il suo percorso e anche questo progetto? L’esperienza all’estero mi ha dato molti strumenti. Nella mia formazione in Portogallo, dove sono stata 8 anni, ho acquisito un grande bagaglio che sono felice di aver appreso da grandi maestri. C’è stata poi una seconda fase del mio lavoro all’estero legata alla necessità di realizzare in maniera concreta. In Italia si realizza poco, invece a un certo punto un architetto ha bisogno di calarsi nella realtà. Affrontare il cantiere, le complessità vere del lavoro è per un architetto importantissimo, non si può lasciare che questa cosa sia secondaria. L’architetto è una figura completa, pensa ma deve anche agire concretamente nella realtà, affrontare i problemi costruttivi e quelli economici. Insomma tutto quello che è un cantiere vero. ...